Anteprima

La trilogia si compone di tre libri indipendenti:

Libro I :  Il Sognatore

Libro II:  Le maghe di Utòpia

Libro III: Un mondo nuovo 

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Un sogno


Un sogno ricorrente; non era altro e lo facevo fin da ragazzino, almeno che io ricordi» o forse, semplicemente credo di ricordare.

Mi addormentavo ed entravo in una caverna: una grande caverna, molto spaziosa e luminosa, con alcune stalattiti e stalagmiti che parevano dei mobili, messi apposta per rallegrare l’ambiente, alcune grandi pietre cadute si ammassavano davanti all’ingresso, a pochi metri, come a formare un muro di protezione; la caverna si trovava quasi alla sommità di una collina di calcare e al di sopra dell’imboccatura il pendio risaliva, erboso. La mia collina; mi ero affezionato a quel posto.

Sul lato sinistro, alcuni grandi alberi di quercia ne delimitavano il confine che più oltre cadeva, scosceso, a strapiombo, in un orrido profondo, sul cui fondo scorreva impetuoso un ruscello, alimentato poco più a monte, da una piccola cascata d’acqua che fuoriusciva da un buco della parete rocciosa.

A destra, il pendio proseguiva dolcemente, scendendo a circondare l’imboccatura in ogni direzione, fino ad arrivare ad un torrente del quale il ruscello era un affluente. Questo torrente era tutt’altro che insignificante: l’acqua lo riempiva scorrendo rapida e impetuosa, rumoreggiando e spruzzando, mentre urtava grosse pietre che ne emergevano nel greto. Il corso d’acqua, nel punto più stretto ferocemente tumultuoso, si allargava a valle più in basso, là dove le acque sembravano calmarsi e acquietarsi, ma la corrente fortissima avrebbe impedito a chiunque la traversata.

Il fondo della collina era delimitato dal torrente.

Mi piaceva considerarla la mia collina mentre mi fermavo sul ripiano di fronte alla caverna ad osservarla digradare verso valle e lo sguardo correva, libero, fino al torrente, soffermandosi sulle poche macchie cespugliose che svettavano qui e là, rifugio di uccelli e animali che mi divertivo ad osservare.

Sul lato più lontano del grande prato la vista era limitata, come a segnare un confine naturale, dalla presenza di un ininterrotto fronte boschivo, fittissimo di grandi piante; dietro, cresceva un’intricata foresta e le cime verdi degli alberi sembravano non avere mai fine, stagliate contro il cielo di un azzurro splendente e luminoso; era sempre bel tempo nel mio sogno, quando io mi trovavo là. Strano. Per questo doveva essere un sogno ma non tanto strano se io mi portavo laggiù l’esperienza di qua: volevo che fosse bello e così lo sognavo. Il cielo però, il cielo non era mai uguale.

Di fronte alla collina, molto lontano, si alzava una vera montagna le cui pendici erano in parte boscose ed in parte prative: chiazze verdi più chiare circondate dagli alberi o dagli spuntoni rocciosi.

Ai margini dei prati si intravvedevano alcuni gruppi di casupole, grigie, quasi invisibili a quella distanza se non in piena luce e si riusciva ad intravvedere una sorta di reticolo di strade che le collegavano; più oltre e più in alto, un edificio, molto grande e massiccio, una specie di grande torrione quadrato o un piccolo castello, si ergeva a dominare la valle sottostante: difficile capire se fosse un edificio in pietra o in legno, probabilmente era costruito con entrambi. Spiccava il tetto: non grigio come quello delle casupole sottostanti, probabilmente di paglia ma di un bel colore rossastro, una macchia che spiccava nettamente, per contrasto, sul verde dei prati o il blu del cielo.

La ‘mia collina’ era completamente disabitata, inaccessibile dalla valle di fronte per via del torrente e della foresta, tutte le volte che vi ero tornato in sogno si presentava così: una meravigliosa e idilliaca oasi verde, piena di uccelli e di animali, liberi e tranquilli.

La caverna non aveva un solo spazio disponibile, come presto ebbi modo di scoprire, perché nel mio sogno non me ne stavo proprio immobile a guardare la natura ma esploravo attorno e dentro, passando ore e ore in quell’attività finché al mattino non mi risvegliavo nel mio letto, morbido e tecnologico, circondato dagli abituali rumori della casa e della città che si risvegliava, ammesso che dormisse mai. La caverna proseguiva, dopo essersi abbassata verso l’interno, con una decisa svolta che immetteva in un vano, poi proseguiva in un cunicolo più stretto dove pioveva in continuazione e l’acqua, che gocciolava dalle innumerevoli fessure del soffitto roccioso, si raccoglieva sul fondo iniziando a scorrere verso il suo punto di uscita: era il drenaggio naturale della collina calcarea che convogliava l’acqua raccolta al ruscello del burrone, alimentandolo.

Una sorta di marciapiede contornava i lati del fiumiciattolo permettendo di camminare agevolmente, anche se non proprio all’asciutto; in fondo il tunnel si apriva improvvisamente in quello che io ritenevo lo spettacolo più incredibile che potesse essere ammirato: solo da grande, dopo aver visto le immagini tridimensionali e studiato le grandi cattedrali europee, ho potuto paragonarlo a loro. Una vera e propria cattedrale naturale, altissima, larghissima, con tanto di colonne, scolpite dall’acqua in forme fantastiche: sequenze di vasche più o meno circolari alte dal bordo rialzato, grandi e piccole, contenevano l’acqua, limpida fredda e cristallina del fiumiciattolo, rallentandone la corsa verso l’uscita; grandi stalagmiti, partendo da terra si allargavano come funghi giganteschi a formare altari e pulpiti.

Stalattiti festonavano il soffitto, tutte le forme possibili, grandi fette di lardo e salumi d’alabastro, tonde mammellone bianchissime, aghi puntuti.

L’ambiente era luminoso; la luce proveniva da alcuni fori sulla fiancata rocciosa riflettendosi o rifrangendosi sulle colonne calcaree e di alabastro, sulle stalattiti e le stalagmiti, nelle pozze d’acqua, faceva brillare la calcite di mille tonalità, dal rosso più acceso al bianco più puro. Era un ambiente enorme e il fiumiciattolo, scorrendo gorgogliante nelle vasche prima di andare a gettarsi nel burrone sottostante, attraverso il foro più grande, comunicante con l’esterno nel punto più basso, componeva una sinfonia, un ritmo indefinibile, continuamente vario e variato, una musica strana, dolce e magica che risuonava creando echi sovrapposti, al vibrare delle superfici. Una cattedrale, un tempio della natura, un luogo antico e magico.

Avevo già verificato che alcuni luoghi parevano dotati di una qualche forma di energia emozionale, percepibile, che li rendeva famosi e noti, visitati da milioni di turisti e fedeli di varie religioni; altri ne esistevano, meno noti ma vissuti dall’uomo in tempi remoti e possedevano la stessa aura, non conoscevo la magia e non la ritenevo reale ma quest’aura invece, la era reale, l’avevo sperimentata.

Meraviglia, emozione, sentimento, erano gli effetti di queste magie naturali di cui le pietre, gli alberi, i luoghi, erano dotati e che permettevano all’uomo di identificarsi con la natura stessa con la sua essenza profonda.

Nella mia era tecnologica e razionale, la magia non era concepita; c’era una spiegazione per tutto o comunque a tutto si attribuiva una spiegazione probabilistica. Non c’era spazio per la meraviglia e lo stupore, per l’emozione della scoperta improvvisa di qualcosa di inatteso; eppure, in passato miliardi di persone avevano aderito, pur rinnegandole poi razionalmente, alle fedi più disparate: da quelle in un unico Dio dai vari nomi, a quelle che si ispiravano a culti e memorie scomparse da migliaia di anni; erano stati modi per differenziarsi, per appartenere a un gruppo e non sentirsi isolati, per trovare speranza quando la realtà e la scienza non ne lasciavano più, modi per continuare a vivere affrontando le difficoltà, di una vita che scorreva, altrimenti senza un senso, un significato; quando una vita non lasciava comprendere alcuno scopo ed appariva fine a sé stessa, oppure aveva come obiettivo, unico e unificante la morte, allora anche alla morte si attribuiva speranza.

Con la scienza e la ragione, iI cervello tentava di attribuirglielo un significato: avevano inventato la società e l’utilità sociale; così si era giunti alla situazione odierna, gli scienziati avevano accertato che la Terra e l’uomo erano in contatto diretto, emanazione l’uno dell’altra e gli uomini erano in grado di percepire questo legame reagendo come strumenti di differente sensibilità: l’uomo era, nei confronti dell’emanazione naturale, una semplice antenna ricevente ma capace di ricevere, identificare, isolare il segnale, pur senza comprenderlo; quando succedeva l’uomo si stupiva. La magia era esclusa, la coincidenza improbabile, la scientificità e l’oggettività ancora meno: si parlava di effetti e fenomeni ‘non ancora chiariti al meglio’ che necessitavano di approfondimenti.

Non esistevano più i maghi e le streghe, le fate e gli elfi dispettosi, le ninfee ingannatrici, non esistevano i fantasmi, i morti restavano morti, le speranze e i bisogni incorporei e immateriali venivano etichettati come scompensi mentali e curati di conseguenza. Rimanevano i talenti!

Quando qualcuno riusciva in qualcosa che, se non a tutti, alla stragrande maggioranza non riusciva, allora quel qualcuno veniva definito un uomo, o una donna, o un bambino non importava: ‘talentuoso’, gli veniva attribuito un aggettivo qualificante, inconsistente, equiparandolo agli antichi fenomeni da baraccone, alle curiosità nei musei delle meraviglie; si faceva eccezione solo per i geni che portavano contributi al progresso scientifico e tecnologico: il loro talento, la loro capacità di intuire prima di dimostrare, veniva celebrato e riconosciuto, generalmente post mortem, o dopo la dimostrazione che le loro intuizioni erano concretamente sviluppabili e concretamente realizzabili, per quanto fossero state improbabili.

Nel periodo in cui i geni esprimevano il loro talento, questo era generalmente associato alla pazzia, per quanto razionali e competenti potessero essere e venivano ridicolizzati, osteggiati, sbeffeggiati, lo scetticismo era la fede dei secoli razionalisti; una tra le tante ma che aveva per valori quelli maggiormente negativi dell’uomo: in primis l’invidia; il merito consisteva nella semplice distinzione numerica tra più o meno fedeli ad una determinata linea di pensiero; ovviamente i meritevoli erano quelli favorevoli alla linea di pensiero dominante che costituiva l’autorità.

Nessuno, ancora oggi, era ancora riuscito a dimostrare e replicare le capacità di empatia quando non di telepatia, di preveggenza, quando non di reminiscenza da reincarnazione, nonostante milioni di evidenze e migliaia di studi effettuati, qualcuno ci credeva, qualcuno ci sperava, molti ridicolizzavano e minimizzavano le espressioni di questi talenti ma nessuno, a favore o contro, ne negava la definizione: ‘fenomeni talentuosi’; esistevano individui con talenti, particolari e particolarmente sviluppati, moltissime espressioni delle capacità umane, razionali e controllate oppure spontanee e irrazionali.

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